Prezzi della frutta: Il prelievo fiscale assottiglia i margini

Di Valentino di Pisa*

Da molti anni nel nostro paese si pone periodicamente la questione relativa ai prezzi rilevati lungo la filiera degli alimentari freschi denunciando una supposta speculazione da parte del commercio a danno dell’agricoltura e dei consumatori. Queste polemiche non hanno mai avuto un supporto scientifico da chi le alimenta. Come dimostrazione vengono elencati dati relativi ai livelli dei prezzi senza considerare che le quotazioni alle diverse fasi di commercializzazione incorporano oltre al prezzo del prodotto in sé una serie di oneri aggiuntivi, necessari per rendere il prodotto adatto alle esigenze del consumatore, nonché conferme alle disposizioni e alle norme specifiche in termini di etichettatura, rintracciabilità e di salubrità.

Se si guarda ad un arco temporale più lungo rispetto alla semplice settimana si nota che l’indice Ismea dei prezzi alla produzione dei prodotti agricoli solo a maggio e giugno, dopo quasi un anno, ha registrato una riduzione in termini mensili. Nel confronto annuo, a giugno 2015, i prezzi agricoli alla produzione sono superiori di quasi il 9% rispetto al 2014. Per l’indice dei prezzi al consumo la variazione rilevata per gli alimentari freschi è, sempre giugno, pari al 2,1%.

Fino ad oggi la vulgata affermava che per ogni euro speso dal consumatore finale per l’acquisto di un prodotto alimentare, 23 centesimi andavano all’industria, 17 all’agricoltura e 60 centesimi al commercio. Cifre che, scopriamo oggi, potrebbero essere addirittura più svantaggiose per l’agricoltura a tutto vantaggio del commercio. Al di là di questo nessuno si domanda dove stiano, nella suddetta ripartizione, almeno le imposte indirette tipo l’Iva. Eppure nei documenti ufficiali, la dicitura corretta di questo cosiddetto margine è «margine lordo della distribuzione e del trasporto». Un piccolo sospetto che si tratti di qualcosa di diverso del profitto dei commercianti avrebbe dovuto sorgere da tempo.

Infatti, quel «margine lordo» non può essere il profitto dei commercianti, non fosse altro per il fatto che include il saldo tra imposte indirette (prelevate e versate dai commercianti) e contributi ai prodotti (percepiti tutti dagli agricoltori!) oltre ai margini del trasporto, che nulla hanno a che fare con il settore della distribuzione. Sarebbe stato

sufficiente leggere l’intera dicitura per non incorrere in un marchiano errore. Il termine «margine» indica la produzione vendibile lorda del commercio e dei trasporti, dalla quale vanno sottratti i costi intermedi sostenuti dal commercio per produrre la suddetta produzione, al fine di arrivare al valore aggiunto, con il quale, poi, vanno pagati i salari e gli stipendi dei dipendenti e gli ammortamenti.

Detratte queste poste normali da quel «leonino» 60 si perviene al risultato netto di gestione del commercio, pari a circa 10 (il 10%). Da questo margine, tolte le imposte indirette nette, si pagheranno le imposte dirette e pertanto, su un euro di prodotti alimentari non trasformati acquistati in Italia circa 7-8 centesimi vanno al commercio all’ingrosso e al commercio al dettaglio considerati nel complesso.

Questi conteggi sono effettuati secondo ben note tecniche standard. Numeri diversi alimentano valutazioni tendenziose che non aiutano i cittadini-consumatori. Per concludere, non è polemizzando sui prezzi che si arriva a creare maggior valore per i produttori: è evidente che la produzione, soprattutto quella di qualità, ha bisogno di servizi, che hanno un costo che non è possibile evitare.

*Presidente di Fedagromercati-Confcommercio

Editor review

Summary

I TEMPI SONO MATURI. E IL PASSAGGIO DALL'ORARIO NOTTURNO A QUELLO DIURNO E' INELUDIBILE PER VALORIZZARE LE AZIENDE CHE OPERANO ALL'INGROSSO , RESTITUENDO LORO QUELLA CENTRALITA' OGGI PERSA.